La revoca del porto d’armi di una guardia giurata dev’essere basata su argomenti solidissimi; incide infatti sull’attività professionale e dunque sul sostentamento suo e della sua famiglia.
La proporzionalità richiesta alla pubblica amministrazione deve declinarsi come «ponderazione delle contrapposte esigenze», così da produrre «una soluzione che comporti il minor sacrificio possibile», non come «un canone rigido e immodificabile»: pertanto il provvedimento di revoca del porto d’armi a una guardia giurata, per la quale le armi rappresentano condizione necessaria per l’esercizio dell’attività professionale, dev’essere basato su argomenti solidissimi; in caso contrario, visto che mette a rischio lo stipendio del lavoratore e dunque i mezzi con cui la sua famiglia può sopravvivere, è illegittimo. Lo ha stabilito il Tar del Lazio (sentenza 5257/2023) accogliendo il ricorso di una guardia giurata cui il ministero dell’Interno aveva revocato sia la nomina sia la licenza di porto di pistola per difesa.
Il provvedimento era nato da quella che per la questura di Roma si configurava come omessa denuncia; dopo aver cambiato residenza, la guardia aveva comunicato il trasferimento di armi e munizioni solo all’atto del rinnovo del libretto per la licenza.
Per il Tar sono però evidenti «l’episodicità dell’evento, la scarsa offensività della condotta desumibile dall’esiguità della sanzione» (50 euro di ammenda) e «l’evidente mancanza di dolo, a fronte di una condanna pluriventennale impeccabile». La questura avrebbe dovuto tenerle presenti prima di assumere un provvedimento che ha pesanti ricadute economiche; è infatti evidente la sproporzione tra una violazione isolata, priva di conseguenze sia per la sicurezza pubblica sia per l’incolumità individuale, e la revoca del porto d’armi, che «annichilisce l’interesse a continuare l’attività lavorativa» e crea enormi difficoltà economiche alla guardia e alla sua famiglia.
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