Il proprietario e amministratore di una società di vigilanza privata ha dovuto attendere dieci anni per ottenere la restituzione del porto d’armi.
Con tante scuse, verrebbe da dire. Ma c’è ben poco da ridere se si considera la professione dell’uomo, un cittadino romano, al quale nel 2007 era stato revocato il porto d’armi per difesa personale dopo l’avvio di un processo penale per peculato. Ossia appropriazione indebita. Perché l’uomo, indagato nel 2007, poi rinviato a giudizio e infine assolto “perché il fatto non sussiste”, era proprietario e amministratore di un’importante società di vigilanza privata. Rimasto senza porto d’armi per una decina d’anni.
Ma, fa capire il Tar del Lazio, non era necessaria la fine del processo per capire che la revoca del porto d’armi non era proprio legittima. Perché il peculato “non implica il benché minimo ricorso a forme di violenza. E perciò, per caratteristiche intrinseche, non vale da solo a delineare una personalità capace di nuocere al resto della collettività”. In più, “il ricorrente era a quel tempo una persona solo indagata e non condannata per un reato che non denota pericolosità sociale, non aveva mai commesso alcuna forma di violenza ed era autorizzato a portare la pistola da decenni, senza aver mai abusato dell’arma”. Ma ci sono voluti dieci anni e un’assoluzione, quando per la restituzione del porto d’armi sarebbe bastato molto meno. È il solito nodo del potere discrezionale.