Si tratta di un mestiere pericoloso anche se negli ultimi anni chi richiede la licenza non ha mai avuto bisogno di sparare.
Non importa se l’azienda per cui lavora è della moglie, né se negli ultimi anni non si sia mai trovato in situazioni in cui fosse richiesto l’uso delle armi. Se dal 1990 un investigatore privato detiene legittimamente un’arma, l’amministrazione non può revocargliela senza che si sia verificato qualche fatto grave. Perché “l’attività di investigatore privato per sua natura può esporre chi la esercita a situazioni di pericolo, anche perché spesso deve agire in modo clandestino per acquisire informazioni da parte di chi non desidera certo favorire la raccolta di notizie che riguardino la sua vita”. Lo ha stabilito il Tar dell’Emilia Romagna annullando così la decisione della prefettura di Rimini che la scorsa primavera aveva rigettato la richiesta di rinnovo del porto d’armi di un investigatore privato.
Il tribunale amministrativo concorda con il ricorrente nel riconoscere che “la continuità nell’esercizio dell’attività di investigatore privato, le caratteristiche, le peculiarità e le modalità di svolgimento della medesima accrescono, con il trascorrere degli anni, le ragioni di permanenza dei requisiti”. E non importa che negli ultimi tempi l’uomo non si sia mai trovato in situazioni in cui fosse richiesto l’uso dell’arma: “il rischio connesso a certe attività è sempre un pericolo di natura astratta che non viene meno solo per il fatto che nel corso di un lungo lasso di tempo non si sia verificato alcun episodio che confermi l’esistenza di un pericolo”. Il tribunale chiude affermando di conoscere “gli orientamenti ministeriali che invitano gli organi periferici a essere molto severi nell’autorizzare il porto d’armi soprattutto per difesa personale, ma ciò non può giustificare un improvviso mutamento di valutazione non motivato da nessun elemento esterno”.