A proposito di beccacce e social network è l’oggetto di una e-mail che abbiamo ricevuto da un nostro lettore, Enzo C., appassionato cacciatore di beccacce da 25 anni.
La sua nota prende spunto dallo scritto di Ottavio Mencio (Corretto al frullo, allo sparo e… al drone), pubblicato in apertura dello scorso numero (1-2017) della rivista.
Pur condividendo il tema dello scritto, che sollecita la sensibilità di ciascuno nell’utilizzo della tecnologia a supporto dell’attività venatoria, tecnologia che consente, anche, di diffondere con sempre maggiore facilità le immagini che ritraggono i nostri “momenti di caccia”, Enzo ci rivolge una critica.
Un controsenso?
“E’ normale pubblicare un articolo del genere e poi nelle pagine successive mettere foto di beccacce in bella mostra (una, due, tre)? Non è un grosso controsenso? Io credo di sì, si dovrebbe pubblicizzare l’affiatamento con il cane, la suggestione dei luoghi, non mostrare beccacce morte. Questo genera competizione tra i cacciatori. Ci sarà chi (con ogni mezzo) cercherà di uccidere più beccacce possibili per mostrarle (“io sono più bravo di quello lì!), quasi che il fine (l’abbattimento) sia l’unico obiettivo e non il modo!”
E’ il modo che conta
Ezio ha perfettamente ragione: è proprio “il modo” che conta. Questo è quello che sempre, attraverso i nostri collaboratori, abbiamo sottolineato nelle pagine della rivista. Proponendo – anche contro corrente e rinunciando a facili consensi – non solo articoli strettamente legati all’attività venatoria, ma pure scritti incentrati sulla formazione cinofila e su aspetti scientifici legati allo studio e alla conoscenza della specie. E anche approfondimenti culturali sulla pratica della caccia e sulle tematiche di legge e politica venatoria.
La memoria distinta dall’ostentazione
Ma su una rivista occorre che i testi, per facilitare la lettura attraverso la sintetizzazione di informazioni e concetti in immagini “spiegate” attraverso le didascalie, siano corredati da fotografie. E capita, come capita… a caccia, che alcune foto ritraggano anche una, due, tre (mai di più, per noi) beccacce che si sono arrese alla tenacia di un ausiliare servito dal cacciatore. La rappresentazione di una scena di caccia passa anche da un’immagine che ritrae con garbo l’esito di una giornata che si conclude con un selvatico in carniere. Questa è “la memoria che va distinta e ben separata dall’ostentazione”, per citare proprio le parole di Ottavio Mencio.
Preziosi ricordi
Proporre fotografie che non rappresentano un concetto o un prezioso ricordo, ma una mera ostentazione di carnieri, senza sottolineare tutto ciò che c’è stato prima di arrivare a quello scatto, è senz’altro una sterile volontà di apparire. Di mettersi in mostra con “numeri e foto che poco hanno a che vedere con la beccaccia e la sua caccia” (per riprendere le parole di Enzo C.). Se queste riscuotono successo e consensi, e se innescano psicologicamente una “lotta al voler mostrare di più”, ciò è la conseguenza di un mondo venatorio immaturo e superficiale, che non ci appartiene e che crediamo non appartenga a coloro che seguono la rivista. La critica di Enzo lo dimostra. Come lo dimostrano le molte testimonianze che riceviamo in redazione.
Beccacce, cacciatori e fotografie
E’ vero, oltre alle foto a corredo degli articoli, pubblichiamo su ogni numero le immagini che ci inviano i lettori. Queste ritraggono anche i carnieri. Risulta, quindi, alla lettura un susseguirsi di pagine (la rubrica Chiacchierando) quasi interamente occupate da scatti di questo tipo. In questo caso è però solo la stringente necessità, conseguente allo spazio dedicato, che obbliga il dover concentrare molte immagini simili in poche pagine. Ma le didascalie e le note che riceviamo dai lettori commentano quegli attimi immortalati in uno scatto lasciando trasparire tutta l’attenzione, l’emozione e l’impegno (inteso nel più completo significato del termine) che stanno dietro a quell’ultimo momento. E quando non è stato così, con molte rimostranze da parte di alcuni, abbiamo dovuto anche prendere la decisione di non pubblicare alcune fotografie pervenute.
Se, quando, come un selvatico va insidiato e catturato
Vorrei quindi ringraziare Enzo che ci ha permesso ancora una volta di spiegare in che direzione va il nostro lavoro. Senza ovviamente pensare di “essere perfetti”, possiamo invece assicurare tutti voi circa il nostro impegno nell’essere corretti nel dare informazioni (anche quelle che “non piacciono”, ma che tali sono) e coerenti con la nostra linea editoriale. Perché solo la consapevolezza può guidarci nel prendere decisioni intime come la scelta del momento in cui tirare il grilletto. All’interno della cornice disegnata dalla legge (che è cosa imprescindibile), è poi responsabilità di ognuno decidere se, quando, come un selvatico va insidiato e catturato.
Arginare i cacciatori vanagloriosi
Per arginare i cacciatori vanagloriosi basta ignorarli e continuare a pensare e ad agire con la propria testa. La sfida non è con gli altri, ma con noi stessi, nel dominare il fuoco della passione quando è il momento del tiro. Una visione della caccia concentrata esclusivamente sull’abbattimento non è per noi. E questo non vuol dire non uccidere. Vuol dire decidere come e quando farlo per assaporare appieno il lavoro del proprio cane e per coltivare la propria tenacia nell’impegno quotidiano ad alimentare con scienza e coscienza la nostra passione.
E si fa per noi stessi prima che per mostrare un’immagine con una beccaccia abbattuta agli altri. Perché guardando una foto, per quanto a volte molto bella e suggestiva, difficilmente le altre persone potranno capire fino in fondo che cosa ci portiamo dentro ricordando quell’attimo. Non solo un susseguirsi di momenti di una giornata di caccia, ma una vita dedicata a crescere come cacciatori.
Prendiamo le distanze
Chi ha un bisogno spasmodico di mostrare una foto di un selvatico abbattuto (o disgraziatamente carnieri ingiustificabili per i più diversi motivi) alla ricerca di consensi, è il momento che sappia che l’indifferenza, se non il giudizio negativo degli altri, lo relegheranno in un angolo in compagnia soltanto di se stesso.