Non c’è bisogno che la Consulta valuti la legge che rende discrezionale la revoca del porto d’armi dopo la condanna penale e la successiva riabilitazione.
È ragionevole aver stabilito che si possa procedere alla revoca del porto d’armi anche dopo la riabilitazione penale, se il reato commesso è uno di quelli che l’articolo 43 del Tulps definisce come ostativi; pertanto, chiamato a esprimersi sul ricorso di un cacciatore sardo, il Consiglio di Stato (sentenza 7394/2022) ha deciso di non chiedere alla Consulta di valutarne la legittimità costituzionale.
Qualche anno fa l’articolo 43 del Tulps è stato al centro di lunghe discussioni politiche e giuridiche: fino al recepimento della nuova Direttiva armi (2018) rendeva infatti impossibile concedere la licenza a chi, a prescindere dall’eventuale riabilitazione penale, avesse commesso alcuni reati. La nuova formulazione della legge consente invece una «valutazione discrezionale» all’amministrazione; in caso di riabilitazione si dovrà dunque procedere a «considerare se la situazione complessiva sia favorevolmente apprezzabile per l’assenza di ulteriori condanne e recidive; per [il tempo trascorso] dalle condanne; per l’esistenza di rinnovi pregressi del titolo»; in generale, «per la buona condotta tenuta negli anni». Per il Consiglio di Stato si tratta di una misura equilibrata che non sembra violare la Costituzione (il nodo è sempre l’articolo 3, il principio d’uguaglianza) e che dunque non richiede un approfondimento specifico.
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