Sono tante le risorse della caccia e per quanto riguarda la risorsa carne di selvaggina i cacciatori sono un esempio da seguire. Ecco l’editoriale pubblicato su Sentieri di Caccia dicembre 2018.
All’esclusiva intervista all’economista Raj Patel, firmata da Chiara Spadaro, è dedicata la copertina del numero di ottobre di Altreconomia (altreconomia.it) e il messaggio è di quelli forti: dal 1950 il consumo di carne nel mondo è aumentato di cinque volte, con pesanti conseguenze sull’uso del suolo, il clima, la nostra salute e il benessere animale. In sostanza, “la carne industriale si sta mangiando il Pianeta”. Patel parte subito con il suo cavallo di battaglia: la carne di pollo, la cui produzione, secondo la Fao, nei Paesi a medio reddito è cresciuta del 250% dall’inizio degli anni ‘90. Un trend che sembra confermato, tanto che entro il 2020 la carne di pollo potrebbe diventare la più utilizzata per il consumo umano. Ma “tutto ciò di cui abbiamo bisogno per produrre quei petti di pollo trasforma il rapporto tra l’uomo e il resto del Pianeta in una direzione distruttiva. Sono un esempio di natura ‘a buon mercato’: un habitat che pensiamo di avere a nostra infinita disposizione, da usare come meglio crediamo; ma niente è cheap per sempre e le risorse che usiamo per produrli si stanno esaurendo rapidamente”. E polli a parte, in un mondo che oggi consuma 250 milioni di tonnellate di carne è facile capire i motivi per cui questa produzione è insostenibile. Gli animali usano circa il 40% della terra arabile globale, occupano due miliardi di ettari di pascolo, consumano un terzo di tutti i cereali prodotti al mondo e per produrre un solo chilo di carne bovina servono 15.500 litri d’acqua. “I sistemi zootecnici – sottolinea Patel – sono responsabili del 18% delle emissioni totali di gas serra, soprattutto attraverso la fermentazione intestinale e il letame”. Senza contare il fatto che “il 70% degli antibiotici prodotti al mondo sono utilizzati nel settore zootecnico e principalmente in via preventiva”.
Qual è la soluzione?
Il quadro disegnato è preoccupante e invito alla lettura dell’articolo, che entra in ulteriori dettagli e considerazioni, per approfondire il tema. Ma qual è allora la soluzione? “Se domani diventassimo tutti vegetariani, sarebbe sufficiente? È la domanda che pone Raj Patel. La risposta sembra essere negativa e la quaestio è, infatti, un’altra. “Abbiamo la responsabilità di scegliere di consumare poca carne e di qualità” spiega Raffaella Ponzio, del gruppo di lavoro Slow Meat di Slow Food. La strada indicata è quella di selezionare con attenzione quello che mangiamo, nel caso della carne “cominciare ad acquistarla direttamente da allevatori locali attenti alle conseguenze ambientali del loro lavoro”. Consumiamo meno carne quindi (evitando gli enormi sprechi), ma mangiamo meglio, soprattutto assicurando un maggior benessere e qualità di vita agli animali; benessere che ci viene restituito anche nel piatto.
Le risorse della caccia
Ma noi cacciatori siamo dei privilegiati, perché la carne buona e sana ce l’abbiamo a portata di mano. Sicuramente oggi la caccia non è legata a una necessità alimentare, ma prelevare quello che poi viene onorato sulla nostra tavola o sulla tavola dei nostri amici, senza eccessi e sprechi, fa parte di una corretta cultura, venatoria e ambientale. E rientra in quel concetto di caccia sostenibile ed etica che tanto viene sbandierato e forse alla fine un po’ meno praticato.
Senza entrare nel merito di un possibile sfruttamento anche economico della risorsa selvaggina con l’attivazione di una filiera virtuosa della carne dei selvatici, tema diverse volte affrontato sulle pagine di Sentieri di Caccia, la riflessione dopo la lettura dell’articolo citato pubblicato su Altreconomia riguarda una dimensione intima e privata.
La carne di selvaggina è una delle risorse della caccia
La selvaggina è una risorsa rinnovabile e molto preziosa, di cui ai cacciatori viene concesso di disporre. Preleviamo una carne sana, perché in natura gli animali, generalmente, vivono in modo sano. Se davvero il cacciatore del terzo millennio si occupa e ha a cuore la corretta gestione del territorio e dell’ambiente, si abbia l’attenzione e il desiderio di interpretare la caccia come arte venatoria e non come sfogo di ancestrali istinti predatori. Si affianchi all’abilità del maneggio di un’arma la capacità e la sensibilità di interpretare la nostra passione dimostrando amore per quello che facciamo e rispetto per quello che abbiamo il consenso di rapire da boschi, paludi, foreste, pianure e montagne. E onoriamo sempre sulle nostre tavole l’animale a cui abbiamo tolto la vita. Più che tanti gesti simbolici, che hanno certamente un loro valore, per onorare le nostre prede, per dimostrare il nostro rispetto per quello che facciamo, per noi stessi e soprattutto per la natura in cui ci muoviamo, quello che a mio modesto avviso conta più di tutto e che fa la differenza per il “resto del mondo” è non sprecare ciò che preleviamo. Non “andare oltre” con un fucile in spalla e valorizzare sulla nostra tavola la carne di selvaggina dà a noi e alla comunità con cui ci relazioniamo la consapevolezza che non andiamo a caccia in modo superficiale e senza coscienza del nostro gesto. Il mondo in cui viviamo richiede un ripensamento complessivo dei nostri stili di vita, anche dello stile di vita di un cacciatore che non può più giustificare la caccia come istinto ancestrale che appartiene all’uomo dalla notte dei tempi.
L’uomo è ciò che mangia, affermava il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. E mangiare meglio, fa vivere meglio. Noi cacciatori possiamo farlo. Facciamo allora in modo di essere un esempio di come ognuno, nel proprio piccolo, più contribuire a migliorare il mondo che ci ospita: niente sfruttamento intensivo delle risorse del Pianeta e niente sprechi in tavola; mangiamo (bene) quello che preleviamo con scienza e coscienza.
© Viviana Bertocchi