Matrimonio in crisi: non basta una denuncia dal coniuge per far perdere il porto d’armi, ma sono stati necessari tre anni per stabilirlo.
Stavolta è andata bene, ma c’è voluto un ricorso al Tar per avere ragione. Il senso della sentenza è: non tutte le querele registrate in fase di separazione coniugale hanno lo stesso peso sulla valutazione della condotta di una persona. Anche perché spesso “hanno natura strumentale”. Ergo: non c’è automatismo tra denuncia e revoca del porto d’armi. Il sottotesto della sentenza è: possono darsi alcune situazioni in cui all’amministrazione basta proprio poco per mettere sotto chiave tutte le armi. E se si vogliono far valere i propri diritti – anche se un giurista ci condannerebbe quest’espressione, perché l’ordinamento italiano non prevede il diritto di portare armi, ma semmai la deroga al divieto di portarle – non resta che ricorrere alla giustizia amministrativa. Con che tempi e che risultati, non è dato saperlo.
Una denuncia del 2014
La storia trattata dal Tar dell’Emilia Romagna prende il via dalle querele per diffamazione e violazione della privacy presentate dalla moglie nei confronti del marito da cui si stava separando; questore e prefetto avevano subito deciso per la revoca del porto d’armi. Anno 2014, mese di maggio. Tre anni e mezzo più tardi il Tar ha stabilito che no, il marito denunciato aveva tutto il diritto (rieccoci) di continuare a portare le armi: il provvedimento era fondato sulla mera denuncia della moglie senza alcuna verifica, si trattava comunque di presunti reati non violenti e in ogni caso la querela era stata rimessa. Oltre che per il loro contenuto, scrive il Tar, le condotte contestate “non dovrebbero avere alcun rilievo sul giudizio di affidabilità, per il fatto di non essere state in alcun modo riscontrate in sede di indagine”. Parziale consolazione: le spese di giudizio sono tutte a carico del ministero dell’Interno.