Nella malaugurata ipotesi che si debba far ricorso a un’arma da fuoco per la difesa personale, quattro sono i parametri che determinano l’efficacia del colpo che sia andato a segno: penetrazione, cavità permanente, cavità pulsante, frammentazione del proiettile.
Nel caso di uno scontro a fuoco, il fine ultimo è l’annientamento della minaccia, quindi l’incapacitazione dell’aggressore. In un mondo ideale dovrebbe essere istantanea, con danni non permanenti, nella salvaguardia dei terzi presenti; purtroppo la realtà è molto diversa.
Per ottenere l’annientamento della minaccia, chi si trovi a usare un’arma per difendersi dovrà collocare quanti più colpi possibile nella kill zone, la zona vitale dell’aggressore, fino al momento in cui questo sia inerte. Si tratterà di un tiro molto diverso da quello meditato, in condizioni di forte stress psichico e a una distanza ridotta, probabilmente in ambienti ristretti, con condizioni di luce critiche e, spesso, con il timore che una sovra-penetrazione (overpenetration) del proiettile o un colpo non andato a segno possano mettere in pericolo la vita di altri attori presenti sulla scena.
L’atteggiamento psicologico
L’aggredito dovrà ricorrere a quello che gli anglosassoni chiamano killing instinct e niente ha a che vedere con le doti morali di chi ne sia animato. Il killer instinct, letteralmente istinto omicida, è l’atteggiamento psicologico che si deve sviluppare affinché si affronti nel modo corretto uno scontro. Questo è il termine inglese con il quale ai reparti speciali viene spiegato il concetto di istinto di sopravvivenza e, applicato alla vita civile, significa affrontare una grande difficoltà – qual è la decisione di aprire il fuoco – con la consapevolezza che la sopravvivenza propria e dei propri cari viene prima di tutto. Paul Vunak, istruttore di reparti speciali americani, in una sua intervista disse: “se devo combattere, io combatto. Se devo uccidere, io uccido. Se devo fuggire, io fuggo”. Tutto questo è killing instinct.
L’annientamento del pericolo può essere ottenuto mediante la distruzione di una parte del sistema nervoso centrale o la produzione di emorragie che inducano nel soggetto uno stato di shock. A livello operativo ciò avviene in modi differenti a seconda che sia ricercata da operatori delle forze armate o di forze dell’ordine. I primi si troveranno infatti ad agire spesso su distanze d’ingaggio considerevoli, avranno difficoltà a danneggiare il sistema nervoso centrale e concentreranno il tiro sulla parte alta del torace (torso shot) mentre i secondi, che di norma operano su distanze ravvicinate, mireranno alla testa per neutralizzare in maniera diretta e immediata il bersaglio. Lo head shot, come lo chiamano gli americani, è il più sicuro in termini di balistica terminale ma pure il più difficile, dato che la scatola cranica è un bersaglio di ridotte dimensione e particolarmente mobile. Nel tiro per legittima difesa è quindi suggeribile, anche nel tentativo di modulare l’entità della risposta all’aggressione, privilegiare il grosso del bersaglio, il tronco, più facile da colpire e comunque “contenitore” di organi vitali che possono annientare la minaccia.
La misura della lesività
Scelto quindi dove mirare, l’attenzione si concentra sulla lesività del proiettile. In questo contesto si analizza il cosiddetto potere d’arresto, indice della capacità di un proiettile a cedere energia e invalidare eventuali bersagli biologici, che dipende da vari fattori: l’energia residua del proiettile quando attinga il bersaglio, la sua deformabilità e la velocità. Impattando contro il bersaglio biologico, l’azione del proiettile si potrà valutare esaminando 4 parametri, fondamentali per la valutazione della sua efficacia.
Penetrazione
Energia elevata e attitudine del proiettile a deformarsi permettono allo stesso di cedere tutta o parte della sua energia distruggendo muscoli, organi, ossa. La profondità di penetrazione, o lunghezza del canale di ferita, interessa la formazione della cavità permanente ed è correlata alla possibilità di attingere organi vitali.
Cavità permanente
La velocità del proiettile è responsabile di un’onda d’urto che comprime i tessuti situati all’intorno del tramite. La cavità permanente (Crush Cavity o anche Permanent Crush Cavity) corrisponde al canale creato dal proiettile nell’attraversamento del corpo e dipende dalla profondità della ferita e dal diametro del proiettile. Nel caso dell’impiego di proiettili a espansione il diametro della cavità aumenta con la penetrazione. Nella creazione della cavità svolge un ruolo anche la forma del proiettile (un round nose tende a separare il tessuto muscolare quasi come una lama, un proiettile a testa piatta ha una maggiore azione di lacerazione). Questa compressione produce una cavità a forma conica permanente contraddistinta da danni macroscopici dei tessuti.
Cavità pulsante
La cavità pulsante, o temporanea, (Stretch Cavity o anche Temporary Stretch Cavity) è originata a carico dei tessuti dal trasferimento di energia cinetica durante il passaggio del proiettile. Di regola, alle velocità tipiche delle armi corte, non provoca lacerazioni o fessurazioni e consiste solo in una sorta di rapida espansione della cavità permanente seguita da un altrettanto subitaneo ritorno dei tessuti nella posizione originale. Può avere effetti concussivi a carico di organi vitali vicini alla traiettoria del proiettile: più alta sarà la velocità, maggiori saranno tali effetti e maggiore sarà la distanza dal tramite entro la quale potranno essere ottenuti.
Frammentazione
A seconda della sua struttura e della velocità, il proiettile può frammentarsi anche attraversando semplice tessuto muscolare; con impatti nelle ossa maggiori possono frammentarsi anche i proiettili più solidi. Frammentazione può significare anche distacco di proiettili secondari originati dal bersaglio, quali frammenti di tessuto ma soprattutto, e con ben altro effetto, schegge di osso.